Covid, un anno esatto dall’inizio dell’incubo: torneremo mai a quel che eravamo?
21 Febbraio 2021-
La Repubblica
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Ancora non l’abbiamo doppiata la data in cui il mondo ci è caduto addosso.
Esattamente un anno fa, in Italia, come in quasi tutto il resto del pianeta, a parte la Cina dove l’inferno si era già scatenato, stavamo tutti ancora vivendo un’esistenza “normale”. Ma ecco che il 21 febbraio viene ricoverato al Policlinico San Matteo di Pavia il 37enne Mattia Maestri, di Codogno, risultato positivo al test del coronavirus e in seguito tristemente etichettato come “paziente 1″. La comunità scientifica a quel punto aveva cominciato a drizzare le antenne e il sindaco Sala già decideva di chiudere le scuole a Milano. Ma la stragrande maggioranza degli italiani neppure lontanamente immaginava che cosa sarebbe accaduto nel giro di pochi giorni, appena dopo la fine di febbraio.
Le città accoglievano ancora il quotidiano, frenetico trantran di tutti noi. Quello che spesso era fonte di nervosismo e che oggi, invece, ci manca come l’aria. Lavoro, scuola, acquisti, sport, svaghi, cure, scadenze, incontri, progetti, prenotazioni, disdette, corse, passeggiate, risate, pianti. Voci che uscivano da bocche visibili. Rumore di aerei che passavano nei cieli. Spalle incappottate che si urtavano nei centri commerciali gremiti. Passi a tentoni nelle sale buie e piene dei cinema per cercare i posti assegnati: “Mi scusi, le nostre poltrone sono quelle lì in mezzo, le passiamo un attimo davanti”…
Non c’è più niente di tutto questo. Ma, nel 2020, a quest’epoca, c’era ancora. Così, a ridosso di uno struggente anniversario, ci chiediamo che cosa sia rimasto di ciò che eravamo allora? Coloro che in questi 12 mesi si sono trovati a dover fronteggiare la malattia, la sofferenza fisica, o addirittura il lutto, hanno toccato con mano il dolore. Chi non è stato direttamente colpito dal virus, è comunque rimasto travolto da un evento sconvolgente e destabilizzante che ha stravolto scenari ed abitudini, imposto limitazioni e nuove regole sociali, condizionato rapporti e penalizzato necessità.
E’ dunque una certezza che ne usciremo tutti con le ossa rotte o qualcosa di “buono”, a livello psicologico, potremmo anche averlo acquisito? Qualcuno avrà tratto beneficio da questo trauma in termini di evoluzione personale? “In realtà le statistiche non sono rincuoranti da questo punto di vista – spiega Eleonora Iacobelli, psicoterapeuta, presidente EURODAP – Però è vero che ci sono state persone che hanno giovato del lock-down e che hanno investito il tempo in più in maniera costruttiva sia per la crescita personale sia in famiglia. Chi è riuscito a trarre beneficio dalla ha mostrato sicuramente una resilienza ed un’adattività molto spiccata”.
Una capacità di adattamento e di recupero che probabilmente è variabile a seconda dell’età di chi ha affrontato questo momento storico. I giovanissimi sono stati messi in grande difficoltà nel doversi adattare alla didattica a distanza e al conseguente isolamento sociale. Gli anziani hanno reagito in modi sorprendenti. Chi terrorizzato in quanto appartenente a una categoria particolarmente vulnerabile in termini di salute, chi sfoderando serenità e ottimismo, forte di remote esperienze ai tempi della seconda Guerra Mondiale.
“Nel caso della pandemia – chiarisce Iacobelli – il nemico è “invisibile”, quindi se da un lato è probabile che gli anziani siano riusciti a trovare delle risorse inaspettate dall’altro è mancato tutto lo spirito di cooperazione, solidarietà ed unione che ha invece permesso di affrontare un evento come la guerra. E’ indubbio però che tra le fasce d’età più colpite a livello psicologico dalla pandemia ci siano gli adolescenti e i disabili. E appunto anche gli anziani.
I bambini dal canto loro hanno una maggiore capacità di adattarsi alle situazioni e ciò è dovuto ad una maggiore plasticità anche a livello cerebrale. – Va tenuto presente che proprio in questa fascia d’età è fondamentale il confronto con il gruppo dei pari per definire le abilità sociali che teoricamente dovrebbero già essere state acquisite in età precedente. I giovanissimi sono anche maggiormente influenzabile dai social e dal “lato oscuro” della rete. Non avendo altra valvola di sfogo o altro modo per comunicare con i propri amici e compagni è inevitabile che si è assistito ad un utilizzo smodato della tecnologia nella speranza di poter simulare un contatto sociale.
Per quanto riguarda le persone anziane ed i disabili – approfondisce l’esperta che è anche responsabile dell’associazione BioEquilibrium – il problema più grande è stato senza dubbio la solitudine. Queste persone, già prima della pandemia, vivevano una forte limitazione delle interazioni faccia a faccia, con la pandemia si è aggiunta la paura di uscire e di ammalarsi ed inevitabilmente si è assistito ad un ritiro sociale spiccato e alla comparsa di sintomi ansiosi e depressivi anche acuti”.
La radicale trasformazione delle abitudini di vita e dei contesti esterni ha provocato uno scossone nella mente di tutti noi. Aumentati i casi di depressione e le vendite dei farmaci specifici. Piccoli benefici, come si diceva, ci possono essere stati in termini di maggiore spazio per i rapporti familiari o nell’inevitabile rallentamento della quotidianità. Ma davvero eventi così traumatici non hanno alcuna chance di cambiare in meglio le persone? “Numerose ricerche ci dicono che un essere umano impiega circa ventuno giorni ad abituarsi ad un cambiamento, dall’inizio della pandemia è passato un anno, quindi dovremmo esserci “abituati”. – spiega Iacobelli. – Il problema risiede nel fatto che la situazione che stiamo vivendo non è “normale”, anzi, va a limitare tutto ciò che nell’essere umano è innato e quindi difficilmente modificabile. È per questo motivo che la sensazione di costrizione può generare sintomi ansiosi e depressivi, anche molto gravi. Il risvolto della medaglia è sicuramente che aver vissuto, e continuare a vivere, una situazione così deprivante ci ha portato ad apprezzare di più le cose che davamo per scontate e abbiamo imparato a dare maggiore importanza ai rapporti sociali e familiari”.
In pratica l’idea di poter “sfruttare” questa occasione (speriamo unica) per poter migliorare se stessi, in qualche modo ritrovare parti di sé dimenticate o trascurate, non è che una chimera? “Purtroppo le statistiche ci dicono che è più facile perdersi che trovarsi, soprattutto quando viviamo momenti traumatici o anche solo stressanti. – replica la dottoressa – La pandemia ha portato notevoli cambiamenti ed in alcuni casi gravi difficoltà economiche e/o di salute. Ciò ha fatto sì che la popolazione si trovi in grave difficoltà e “risalire” è molto più difficile che rassegnarsi poiché richiede un investimento di energie psichiche importanti che non tutti attualmente abbiamo a disposizione”.
A che cosa appellarci dunque per mantenere un minimo equilibrio psichico e intercettare quelle energie che potrebbero aiutarci nella ripresa?
“Nella vita di ognuno di noi avvengono una molteplicità di eventi stressanti (traslochi, separazioni, lutti…). Ciascuno ha una capacità differente di far fronte a questi eventi anche a seconda dell’età in cui avvengono. Tale attitudine viene chiamata resilienza. La resilienza non è altro che l’abilità, che risiede in ognuno di noi, di far fronte in maniera funzionale ad un evento traumatico, o anche solo stressante, e di riorganizzare la propria vita in maniera efficiente. L’aver sviluppato un’alta resilienza è indice, in età adulta, di una più elevata salute fisica, minore predisposizione a disturbi psichici (es: ansia o depressione), maggiore benessere in generale.
In una ricerca pubblicata su Nature e risalente al 2016 viene approfondito il nesso tra resilienza e neurobiologia. Dall’articolo si evince che alcune aree cerebrali (neocorteccia, amigdala, locus coeruleus ed ippocampo) sono direttamente connesse alla presenza ed allo sviluppo di tale abilità. Alcuni neurotrasmettitori, inoltre, sono in grado di favorire o inibire la nostra resilienza. Nel nostro cervello, infatti, sono presenti due tipi distinti di recettori dello stress:
1) attivato da bassi quantitativi di cortisolo (ormone dello stress) e che stimola l’ippocampo;
2) attivato da alti quantitativi di cortisolo e che incide sulle capacità mnemoniche diminuendole.
Dallo studio è emerso che le persone meno resilienti avevano una presenza maggiore di cortisolo nel sangue”.
Un anno è trascorso dalla fine di febbraio 2020. Non sappiamo quanto tempo dovrà ancora passare perché si torni a quel che avevamo prima. La nostra trasformazione interiore è probabilmente ancora in corso. E allora viene da chiedersi come o cosa saremo diventati quando l’incubo terminerà. Saremo capaci di rientrare a far parte di una cosiddetta “normalità”? “Questo è un altro tema molto delicato. Sarà sicuramente più facile riabituarsi a ciò che ci viene naturale, ma il mondo sarà inevitabilmente cambiato, quindi non sarà esattamente “tutto come prima”. Conclude la dottoressa – È, però, presumibile che le persone che sono riuscite a trovare il modo di giovare della situazione a livello personale possano ben riadattarsi al nuovo cambiamento. Ma non sarà facile, per nessuno. Bisognerà non sottovalutare neppure la nuova sfida: la fatica di riprendersi la vita”